sabato 28 marzo 2009
superba è la notte
venerdì 20 marzo 2009
assignment3
La rete. Durante la lettura del pamphlet si è tenuta viva in me una connessione, un’immagine. Forse per limiti miei sono abituata a considerare la rete dal di fuori. Non perché necessariamente sia io a starne fuori, ma perché mi viene comunque da pensare che una rete di solito è fatta perché qualcuno (chi non ne fa parte, appunto) vi rimanga impigliato. Mi si potrebbe obiettare che “siamo unicamente noi con le nostre azioni che possiamo dar valore agli strumenti, di per sé né buoni né cattivi”. Ma onnipervasivi, autoritari, “nuovamente autoritari” forse, ma non per questo la voglia, l’istinto di sfuggire è meno forte. Ancora questione di adattamento, se non allo School Learning Environment, a qualcosa di più difficilmente aggirabile. Dove con aggirabile non intendo il furbinesco aggirare per rifugiarsi nel limaccioso personal environment che non ha niente di learning; intendo che per me aggirare la rete o in qualche modo sbirciare attraverso le sue maglie, affacciarmi su mondi altri è sempre stato quello che ha fatto la differenza (mi rifaccio alla differenza tra il piatto di orecchiette con un amico e la barretta energetica). Mi spiego. Posso essere considerata una fortunata dal punto di vista dello School Environment infantile. Ho frequentato una scuola elementare che senza fregiarsi del titolo di sperimentale ci faceva vivere “la strada” per davvero, invitando in classe i nonni, creando uno scambio assiduo col prospiciente Albergo Popolare-più che una rete un filo da equilibristi-, avevamo perfino un orto vero. Per me le metafore del mezzadro, della madre, del bosco sono quindi familiari, assorbite profondamente, ma al contrario, in modo speculare: come vessillo di ciò che da ogni sistema ha scelto di stare fuori. Ecco, per me è questa la vita, la differenza: lo squarcio nella rete.
giovedì 19 marzo 2009
delicious
mercoledì 18 marzo 2009
commento all'articolo sugli opg
Un buco nero con 1200 persone dentro”. E 1200 persone con 1200 buchi neri dentro, tutti diversi, inaccessibili e profondissimi (“più fondo del fondo della notte del pianto” verrebbe da citare De André). Buchi neri in cui affondano creature fragili, principesse che si svegliano una mattina scoprendo che il rospo che avevano trasformato in principe non c’è più, non c’è mai stato (come nella bella testimonianza di Giannetto), e non riemergono spesso mai. Forse per l’intontimento da psicofarmaci, quando non da elettroshock (si veda la diatriba recentemente riaperta dalla circolare dell’ex ministro Rosy Bindi), o forse per scelta, una scelta più o meno consapevole contro se stessi, che porta inevitabilmente all’autodistruzione, un’eversione vera, si potrebbe parlare quasi di un divertimento nell’andare sempre più a fondo in quel buco, forse per dimenticare quello che sta fuori, quello che spesso inghiotte per primo le persone che finiscono nei luoghi come gli opg, ossia “noi”.